sabato 11 giugno 2011

Dibattito con Vitaliano Trevisan e Franco Zagari. Responsabilità impossibili = nessuna responsabilità?



Alcune considerazioni sull'interessante incontro di ieri pomeriggio alla Fondazione Benetton di Treviso.
Franco Zagari come interlocutore di Vitaliano Trevisan, lo scrittore/regista/attore/autore veneto che a partire da "Tristissimi giardini" affrontava di fronte a un pubblico molto interessato i temi del degrado del paesaggio veneto.

Ripeto: considerazioni molto personali che non sono una sintesi dell'incontro che ha ospitato anche alcuni interventi di Nadia Breda dal pubblico, ma ruotano su alcuni punti specifici.

"Tristissimi giardini" per me è stato un volume prezioso, concentrato su questo territorio, ma con uno sguardo diverso prima di tutto perchè non doveva (e non voleva) rendere conto a nessuno. L'autore che qui guarda e scrive del Veneto non è nè un paesaggista, nè un architetto, nè un sociologo o un antropologo, non un politico o un professionista di qualsiasi genere.

Il suo essere stato geometra ("senza firma") e lattoniere lo ha portato ad essere un co/protagonista della trasformazione del paesaggio e delle sue componenti (ha progettato capannoni e ha lavorato sulle loro coperture). La letteratura entra qui come strumento e prodotto di una ricerca per esplorare le "zone e percorsi di resistenza all'evidenza". Un esempio per Trevisan di questa resistenza sono quelle realtà del territorio che COME certe piante che bucano l'asfalto, mettono le radici su di un muro o nell'incavo di una grondaia trascurata, crescono e si sviluppano, vivono "senza rendersi conto che non è li che dovrebbero essere, e di quanto precaria sia la loro situazione."

Attenzione: l'evidenza non è la realtà di fatto, per cui resistere all'evidenza significa resistere ad una realtà che si può non accettare, che si può contrastare, ma una lettura della realtà. Come potrebbe essere la realtà virtuale di un gioco digitale: in questo caso il ruolo del giocatore è di entrare in questa realtà e farla sua, appropriarsene e tanto meglio ci riuscirà tanto più il gioco sarà soddisfacente: resistere all'evidenza di questa realtà virtuale significa cercare i difetti, le smagliature del gioco i suoi buchi ed i suoi bachi, in pratica fare le pulci al suo autore.

E difatti a Trevisan le piante, l'albero, non interessano. Non: la piantina che sopravvive nella grondaia, ma: il suo essere fuori posto, contradditoria, resistente al progetto del lattoniere, del geometra, del proprietario della casa.

In questa prospettiva "Tristissimi giardini" diventa un percorso denso e ricco di fulminanti immagini di queste resistenze: Vicenza "contenitore" di straordinatri, magnifici "contenitori" come la basilica e il teatro palladiano, città "vuota, insipida, futile, gratuita, decisamente non all'altezza di quel magnifico sfondo."

E qui nasce la contestazione di Nadia Breda a Trevisan: questa incapacità di riconoscere passato e presente del territorio veneto e quindi questo concreto agire nel territorio senza comprenderlo e -dice Nadia- senza volerlo comprendere, non è un dato di fatto, ma il frutto di una visione del territorio e di un agire, un fare progettuale, politico, imprenditoriale, sociale anche ad es. per i risvolti che si sono prodotti con la destrutturazione urbanistica che è stata chiamata città diffusa (Trevisan dice giustamente: periferia diffusa).

Per Trevisan invece non ci sono COLPEVOLI, responsabili da individuare, perchè siamo tutti colpevoli. Tutti noi che abbiamo votato questa classe politica per 50 anni o che pur senza averla votata abbiamo partecipato al festino economico che ha visto il Veneto schizzare al top mondiale della crescita del PIL, almeno nei decenni passati.

Nadia Breda ha contestato quindi 2 cose: innanzitutto che esistono e sono individuabili attraverso gli atti pubblici che hanno sottoscritto, i tecnici, i politici ed i partiti che si sono resi responsabili (nel senso più ampio) delle scelte di gestione del nostro territorio. E che rendere visibile questa realtà, chiamare a rispondere delle loro scelte tutti costoro,  significa uscire appunto dalla rete melmosa  che prende dentro tutti e nessuno,  contro la quale aveva ben scritto Hanna Arendt nella Banalità del male.

Non si tratta di trovare dei COLPEVOLI  per potersi sentire INNOCENTI, come le contestava Trevisan.  Certo sono d'accordo con Trevisan che siamo tutti -in varia misura- corresponsabili dello stato delle cose, ma solo con un riconoscimento delle responsabilità  (individuare chi ha autorevolmente promosso la distruzione del territorio e chi l'ha passivamente subita ad es.) potremo sperare di cambiare lo stato delle cose: prima dobbiamo riconoscerle.

Quindi, altro punto inportante, Nadia Breda ha ribadito l'importanza (anche simbolica), il significato dell'albero come creatura vivente innanzitutto, rispetto ad una prospettiva che oggi al più lo considera come oggetto di arredo urbano quando non, molto più spesso, un problema proprio per la sua vitalità: le radici che sollevano le pavimentazioni, l'ombra fastidiosa, un pericolo per gli automobilisti, etc.

Per Trevisan l'albero invece non ha valore in quanto vivente, ma in quanto elemento contestuale, come OGGETTO.

Da questo punto di vista mi pare in  accordo con la visione del paesaggio del Prof.Zagari, per il quale se è  vero che

Il paesaggio non si tutela pensandolo come qualcosa di statico, destinato a durare in eterno, ma progettando il difficile equilibrio, perennemente in movimento, tra la natura e la sua antropizzazione. [dall'introduzione di Renato Nicolini a Franco Zagari a Questo è paesaggio. 48 definizioni Gruppo Mancosu editore, Roma 2006]

questo equilibrio non sembra lasciare spazio alla natura ma solo all'idea (ed a una idea in patricolare) che l'uomo, l'architetto, l'esteta, il paesaggista ha della natura. 


Ma come parla, come rende conto di sè la natura,  l'albero in questa (im)possibile "mediazione" che la e lo vede presente o con la voce dell'uomo (che gli dà senso e storia) ma anche con la propria voce che è appunto la voce del suo esistere, del suo esserci biologico e storico, ma che appunto nella prospettiva di Trevisan diventa flatus vocis, nessuna voce o voce inascoltata da tutti??

In fondo buona parte della storia dell'uomo (non solo la nostra storia, ma di tutte le altre culture) è stata la storia di (come) questa voce senza parole ha preso la parola a partire dal suo essere concreto, dal suo esistere, ed ha costretto l'homo sapiens ad ascoltarla.

Solo oggi e qui, possiamo addirittura permetterci di non ascoltare più questa voce, di riconoscere come OGGETTI equivalenti un albero e un lampione, di nascondere quella fondamentale parte di noi che è natura prima ancora che cultura. Senza la quale saremo forse solo degli uomini a metà. 

Andrea Mattarollo

1 commento:

  1. Ho lettoillibro di Trevisan e anche lo sconcertante attacco fatto a Marco Paolini, tutto personale a partire dalla scelta di non nominarlo se non come "noto attore/autore veneto di successo", deridendo la sua presenza scenica "il suo aspetto, il modo di muoversi, gli occhi, lo sguardo, tutto aveva del prete etc." per arrivare a ridicolizzare il suo lavoro ("assistevo in presa diretta allo svilimento, allo scempio che egli faceva di un libro che avrebbe meritato delicatezza, distacco rispetto e si: civiltà").

    Leggendo l'articolo qui, mi veniva in mente cosa manca a Trevisan: l'empatia! Mai in nulla di ciò che scrive c'è la minima vicinanza, solidarietà, empatia insomma, con alcuno, nemmeno con se stesso.

    Si spiega così mi pare il fatto che dell'albero non gli importi nulla e che un'autore come Paolini, che lavora sull'evocazione della memoria, su come eventi lontani possano essere compresi dal pubblico attraverso l'evocazione di esperienze vissute, anche quotidiane, sia per lui inconcepibile e inaccettabile.

    saluti,

    Marco (non m.p.)

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