mercoledì 5 gennaio 2011

Recensione dal sito "Geograficamente" di Sebastiano Malamocco

Geolibri – “BIBO, DALLA PALUDE AI CEMENTI. UNA STORIA ESEMPLARE” di Nadia Breda – I PALU’ di San Vendemiano (Veneto Orientale) sventrati dal passaggio di un’autostrada (la A28) – Si poteva far meno danno, salvaguardando il territorio e costruendo la strada. Ma non si è voluto

Di sebastianomalamocco

Area agricola e naturale dei PALU’ di Zoppè, ora a pochi metri dall'A28 – Zoppè (frazione di San Vendemiano) è una delle località dei palù tra Monticano e Livenza, dove sopravvivono ancora alcune aree di questo particolare assetto territoriale naturalistico di grande valenza storica e ambientale (i PALU’), caratterizzato da acque di risorgiva, e che risulta (risultava?) ancora in buona parte incontaminato. - L'autostrada A28 è stata portata a termine nel mese di dicembre 2010, intersecando da est a ovest buona parte di queste aree naturali e modificandone l'assetto secolare
Per un’intuizione atavica, per aver visto sulle carte una terra integra e acque sotterranee, campi senza case, dopo aver riempito tutti gli altri spazi e averne individuato uno ancora libero, alcuni coltivatori di strade hanno collocato in queste terre un oggetto estraneo: una strada. Una auto-strada.  E così è capitato che, nei luoghi degli uomini antichi, coltivatori di strade e coltivatori di terre si siano incontrati e scontrati.   Solo per questo singolare motivo queste acque sono state dimensionate, pesate, valutate, questa terra fotografata, descritta, indagata, i suoi vocaboli usati dai poeti, la sua storia sviscerata, il suo uso studiato dagli antropologi, e antiche rappresentazioni pittoriche sono state rinvenute. Elicotteri hanno spiato dall’alto queste acque, e piedi importanti di soprintendenti e di ministri hanno calpestato queste minuscole terre e preso decisioni su di esse.  Ma vent’anni fa, quando la storia della strada è cominciata, di questi luoghi poco si sapeva.” (…) (Nadia Breda, da “Bibo, dalla palude ai cementi. Una storia esemplare”)
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   Ecco, questo articolo del blog è dedicato proprio a “una storia esemplare”. Una storia descritta nel libro di Nadia Breda (vissuta sulla sua pelle si potrebbe dire, ed è anche, tra le tante cose che questo libro rappresenta, un’autobiografia della propria infanzia sui luoghi vissuti e sui personaggi di famiglia…), dal titolo appena qui sopra citato. Ne riportiamo alcune righe, qui di seguito, alternandole alle nostre osservazioni dopo aver letto il libro, che ben vi consigliamo (ma difficile rendere la complessità di un’opera di 180 pagine…). 


La copertina del libro di Nadia Breda, “Bibo, dalla palude ai cementi. Una storia esemplare” ed. Cisu – Il libro (euro 22,00) si può trovare a Treviso alla Libreria Canova, o al Centro del Libro di Fiera; a Vittorio Veneto al Punto; a Conegliano alla libreria “Quartiere Latino” – oppure ordinandolo direttamente alla Casa Editrice CISU (Centro d’Informazione e Stampa Universitaria) di Roma, attraverso la mail info@cisu.it o andando al sito www.cisu.it 

   Si viene a parlare di come un luogo, i Palù di San Vendemiano (poi spieghiamo cosa e dove sono) e la sua gente, sia sconvolto, prima dalla notizia, dal progetto, che di lì si vuol far passare un’autostrada; poi dal lungo e defatigante iter di approvazione preliminare, definitiva, esecutiva (e le osservazioni, le opposizioni, le proposte migliorative, i colpi di scena nell’iter burocratico…), fino a dover soccombere alla concreta realizzazione di quest’autostrada, dove ogni ragione ambientale, ogni proposta alternativa, viene superata dalla “ragion di stato”, dalla “priorità” di dare risposte (è da discutere se son risposte virtuose…) all’emergenza trasportistica; alla gente che “chiede strade”.
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   Il luogo di cui parliamo è l’ambiente naturalistico situato nell’area del Veneto Orientale a ridosso del confine friulano, identificabile nella parte sud dell’asse tra Conegliano e Sacile, e più specificamente un’area che viene chiamata come “Palù di San Vendemiano” comprendente superfici oltre che del suddetto comune di San Vendemiano, anche di quelli di San Fior, Godega Sant’Urbano, Orsago e Codognè. Ebbene questi territori di risorgiva, tra alta e bassa pianura, di altissimo pregio naturalistico, ma anche storico (alcuni paesaggi riportano a “modi organizzativi” rurali che potrebbero risalire al Medioevo), questi territori sono stati di fatto sventrati (lo possiamo dire, ma senza vena polemica, è la realtà…) dal completamento di un’autostrada, la A28, che collega appunto la parte orientale del Veneto con il Friuli (sia verso Pordenone che a sud-est verso Portogruaro e da lì Udine e Trieste…).   

Nella foto, Giorgio Sarto, senatore dei “Verdi-l’Ulivo” dal 1996 al 2001, urbanista e architetto di Mestre-Venezia: importante la sua azione, in quelli anni decisivi per la costruzione dell’ultimo lotto dell’autostrada, volta a trovare una soluzione alternativa al completamento dell’A28 salvaguardando i Palù di San Vendemiano – A lui, ad Andrea Mattarollo del WWF (http://www.illeonedorme.it/), e alle bambine del borgo è dedicato il libro.

   L’ultimo tratto da completare della A28, tra Sacile Ovest e Conegliano (13 chilometri e mezzo) è stata realizzata in due lotti, e l’ultimo lotto (il n. 29) di 4 chilometri di collegamento con Conegliano e con un’altra autostrada (la A27 Mestre-Belluno, detta Alemagna perché originariamente doveva arrivare in Germania, cioè Monaco, ma i sudtirolesi non la hanno voluta…), l’ultimo lotto di quattro chilometri della A28 passa appunto per quest’area di grande pregio dei palù (chiara, nel nome, la derivazione antica da “palude”), fatta di risorgive (l’acqua sotterranea delle dorsali prealpine che lì appunto “esce”) con un’organizzazione rurale che ancora faticosamente si è mantenuta integra, o quasi, rispetto al caos totale del territorio agricolo della pianura veneta. 
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(…) “E così quando vent’anni fa ci riunimmo a casa di Pietro (una casa in mezzo ai palù), ad ascoltare un amministratore che apriva grandi fogli, e spiegava che una grande strada sarebbe passata su queste terre, in mezzo alle sère (ndr da altra pagina del libro: le sère era il luogo dove crescevano in abbondanza quelle canne di palude –erbe lunghe, nastriforme, grasse e spadose- dette appunto sère, tife in italiano) e ai palù, c’ero anch’io in mezzo a quei contadini –io che ascoltavo- con mio padre, a veder nascere questa nuova storia. L’amministratore spiegava che erano decisioni irrevocabili, che bisognava comportarsi bene, che “non dovevamo accoglierli con il forcone”, i coltivatori di strade, quando fossero arrivati, di lì a poco. Diceva che l’amministrazione avrebbe chiesto, come compenso del danno, la costruzione di un velodromo. Intanto lui ci avrebbe tenuto aggiornati. I contadini quasi non sapevano cosa fosse un velodromo:” (…) (Nadia Breda, dal libro)

l'A28
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   Un libro molto rigoroso quello di Nadia Breda (nella scrittura, nelle descrizioni, nei contenuti). Sui vari piani in cui si muove, ogni cosa “è al suo posto”. Quando parla dei suoi avi (a partire dal Bibo, che sarebbe un prozio, un fratello del nonno, uomo disadattato al mondo “normale” ma che si innesta spontaneamente nella cultura contadina, nei lavori da fare, in quel mondo rurale del secolo scorso prima che lo sviluppo industriale e il benessere consumistico eliminasse del tutto quella civiltà). E’ assai rigorosa, l’autrice, quando traccia scientificamente le caratteristiche, ambientali, paesaggistiche, del sistema virtuoso delle acque di risorgiva dei Palù. Ma anche quando lei stessa si addentra nei meandri della politica, dei mass-media, delle procedure amministrative, cioè di tutto quel mondo che si mette in moto quando una grande opera, come un’autostrada, viene a interessare (servitù di passaggio) un territorio, che così inesorabilmente cambia, non è più lui.
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   (…) “E fossi, e siepi sopra i fossi, e campi attorno alle siepi sopra i fossi furono sistemati dagli uomini antichi in modo che non ombreggiasse troppo, né da una parte né dall’altra, in modo che l’acqua non fosse invadente né troppo scarsa, ma irretita in un reticolo diffuso, che creava una geometria perfetta. Quando tracciarono l’autostrada sulle carte, la disegnarono sulla linea delle risorgive, calpestando geometrie di terre, impostandola in senso trasversale all’allineamento dei campi e delle siepi e dei fossi, voluto da questi uomini antichi. Una strada-diagonale. Una strada de travèrs, una strada di traverso, dissero i contadini. Sconvolsero le acque e il loro schieramento, ruppero righe di siepi, spezzarono i campi. Non valsero le rimostranze, il dire con forza che quei pochi metri di risorgiva erano un accordo, un segno e un confine, e che in base a quel fenomeno naturale era stata decisa da secoli la distribuzione delle terre. Non valse dimostrare che c’era un pensiero in quelle terre difficili, conviventi dell’acqua.” (…) (Nadia Breda, sempre dal libro)
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    Passionale, oltre che scientificamente attenta, Nadia Breda, nel raccontare la storia, la vicenda, da un’angolatura sua intimamente personale (fatta anche di sogni raccontati, di guidate farneticazioni date dal dolore o dal senso di rivolta), del legame con i suoi avi. Una narrazione che ritroviamo poi addentrarsi, senza mai dirlo, nella “difficoltà” di chi “ha studiato” (lei antropologa) e proviene da una civiltà contadina con nessuna dimestichezza di libri (ma di grande esperienza vissuta dei processi di vita). Pertanto, se il padre si rifiuta di opporsi all’autostrada con i mezzi politici e giuridici (“ci sono i sindacati degli agricoltori”) che magari “uno che ha studiato” può essere in grado di usare (questi strumenti politici e giuridici), dall’altra entrambi, il padre contadino (che ora non c’è più) e la figlia antropologa, sembrano percepire la “fine di un mondo”: un accadimento, un processo, che ad esempio Pasolini chiamava “il genocidio culturale”: un passaggio clamoroso, in pochissimi anni, da una civiltà ancora totalmente contadina ad una consumistica fatta sì di ricchezza e forse maggiori opportunità, ma anche di (non)valori, di “consumo”, di dissipatezza, di nuovo tipo di (non)comunicazione di massa (la televisione).
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(…) “Mio padre in quelle grandi carte aveva visto l’autostrada sopra le sue terre nelle sère, terre così piccole che nessuno ci faceva caso… disse che non avrebbe mai creduto che una strada così larga potesse accamparsi nella sua terra: c’era sempre sembrata così piccola, la sua terra, e ora venivamo a sapere che poteva contenere un’enorme autostrada! Lo svincolo autostradale di approdo è grande almeno venti volte il borgo degli uomini antichi: una sproporzione che basta guardare le carte topografiche per essere angosciati. Credo che mio padre abbia pianto, quella notte. Perché ho pianto anch’io.” (…) (Nadia Breda, sempre dal libro)
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   La (quasi) fine della civiltà dei Palù, a San Vendemiano, imposta dal passaggio di un’autostrada, di fatto si faceva sentire già prima (vent’anni prima dell’arrivo dell’autostrada, dice l’autrice). Con la minor attenzione dei contadini a quella terra preziosa; il loro passaggio appunto, ad essere voluti dalla società, come “imprenditori agricoli” e (chissà perché) il guardare a quella stessa terra forse con meno amore (solo distruggendo e inquinando la terra si può far maggior reddito?). Il poeta Andrea Zanzotto ha una volta espresso una sua teoria in merito al fatto che sono spesso i contadini i “maggiori nemici” della terra che per tante generazioni hanno lavorato. Secondo il poeta questo è dovuto a una specie di vendetta, di rivolta nei confronti della terra “nemica”, che per tanto tempo essi, contadini, hanno dovuto piegare la schiena su di essa, a togliere i sassi, nell’aratura, nella semina, nella raccolta, nei magri risultati; il tutto fatto appunto con grande dolorosa fatica; ed ora, nei decenni recenti, vi è quasi una vendetta nel voler “trattarla male”. Ipotesi suggestiva, interessante, a spiegare perché i “veneti poveri” del dopoguerra, ora relativamente ricchi, che si sono così accaniti sul loro paesaggio.
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   (…) “Per anni io li studio e li sorveglio con la speranza che la conoscenza, la documentazione scientifica, la riflessione oggettiva renda coscienti le decisioni politiche, che si cambi rotta, che non si violenti questa terra. Scopro che i palù sono una pausa, un respiro.  Sono la notte nei giorni degli uomini, il limite, un punto nevralgico mai violato da infrastrutture rigide. Nei palù non ci si arriva dalle strade principali, non ci si arriva in automobile. Bisogna “andare” verso i palù, abbandonare qualsiasi meccanizzazione e addentrarvisi “con cautela”. Un silenzio, i palù, fino ad oggi non abitati, né infrastrutturati.   Percorsi sì, utilizzati, conosciuti, coltivati. Senza la mano dell’uomo contadino, che trasformò un lago in palude, una palude in palù, essi oggi non ci sarebbero.   Ma case no, strade no, costruzioni no: i palù erano un dentro nel quale non si costruiva. Stradine di campagna, labirinti, reticoli, esili passaggi sbarrati da fossi e corsi d’acqua, rogge dritte o serpeggianti, anche questo sono i palù.   Nessuna casa nei palù. Nessuna costruzione. Impossibile portarci le fabbriche: i loro camion si infangherebbero. Miracoloso vuoto, questi palù nel nord est megalopoli padana” (…) (Nadia Breda, dal libro)
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   Esistevano alternative possibili a quei 4 chilometri di autostrada in mezzo ai palù, a sventrare irrimediabilmente un paesaggio, che ora deve fare i conti con una servitù predominante. L’autostrada non è solo il nastro che si distende con i suoi cinquanta metri di larghezza: è anche i caselli che occupano spazi enormi inimmaginabili -far convogliare tutte le direttrici in un unico punto- (nel caso specifico il casello di Godega di Sant’Urbano inaugurato nel dicembre scorso); ed ancor di più sono impattanti le cosiddette “opere di adduzione”: nuove strade che servono per poterla raggiungere l’autostrada, rotatorie, opere connesse, con la necessità di fare l’opera in semi-rilevato perché  va in direzione “contro natura” (est-ovest) rispetto al sistema nord-sud di scolo, pendenza delle acqua dalle prealpi alla pianura-mare…. L’alternativa era uno spostamento di quei quattro chilometri affiancando il tracciato alla ferrovia a nord, meno impattante, e in alcuni tratti forse (pensiamo noi) adottando sistemi a galleria che oramai riescono ad esprimere tecnologie avanzatissime anche in luoghi di grande difficoltà ambientale (nel nord Europa, in Olanda, si costruiscono gallerie stradali in luoghi sotto il livello del mare…).
   Nadia Breda, nella parte finale del libro, riporta la corrispondenza avuta con un senatore (dal 1996 al 2001, dei verdi), Giorgio Sarto (urbanista e architetto veneziano) mettendo in rilievo la sua azione politica fatta per conciliare “l’esigenza del collegamento stradale” con il mantenimento del paesaggio a palù, dei sistemi naturali (Sarto su questo si è positivamente distinto, anche con grande efficacia politica, non solo per la A28 ma anche per la costruenda superstrada pedemontana veneta). Una capacità politica, la sua, di Giorgio Sarto, legata anche al fatto di dover trattare un tema che angosciava e cambiava la vita a tante persone (il venire a contatto con grandi infrastrutture, nei propri luoghi di vita, cambia e sconvolge equilibri personali consolidati).
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(…) “I momenti in cui gli ambientalisti e le loro associazioni sono stati insultati, erano i momenti in cui erano più forti, in cui stavano per vincere la battaglia. (…) Così le proposte degli ambientalisti sono state, per i canìba, solo impedimenti, le loro ragioni solo teorie, i dubbi sono stati definiti inganni e ostacoli pretestuosi, le informazioni che essi apportano sono state definite mistificazioni, le ragioni dell’ambiente intenti ostruzionistici, le risorgive storielle inventate. Il WWF è un’associazione di privati che intralcia per i suoi privati interessi il buon fare degli amministratori pubblici. – Basta con questi pasdaran dell’ambiente. – Condannate gli ambientalisti!   Gli ambientalisti verranno “condannati davvero. Alla fine dei due ricorsi che il WWF sostenne, entrambi persi, gli ambientalisti vennero condannati, anche pecuniariamente al pagamento delle spese di causa. ‘Ambientalisti condannati a pagare trenta milioni’. La nostra sconfitta non fu solo giuridica e monetaria. Fu l’umiliazione, la cosa più brutta. Il senso di intimidazione che provammo, il sentimento che ci stessero dicendo che era meglio non riprovarci più…Senso di essere alberi sfrondati, recisi.” (Nadia Breda, dal libro)
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   Quella volta, i trenta milioni chiesti al WWF come spese processuali da pagare alla controparte, impressionò psicologicamente molto tutto il mondo ambientalista (del nordest, ma anche nazionale)… Un’azione di forza, “cattiva”, uno sgarro vero e proprio, la prevaricazione di non poter neanche addurre motivazioni legali (su leggi “di tutti”) per non disturbare il “manovratore”: un processo (di sviluppo?) che non aveva tempo e voglia di sentire voci contrarie. Le spese legali per gli Enti pubblici non son soldi “loro” e l’amministratore ha un “rapporto con esse” meno angosciante; e le grandi imprese private le mettono come costo nel conto economico; per l’aderente al circolo ambientalista son soldi da trovare in un bilancio finanziario personale, famigliare…
   In questa battaglia dura piace ricordare esempi anche di chi difende un principio ambientale e riesce a vincere: viene in mente, a proposito di “palù” (quelli del Quartier della Piave) quella condotta dall’allora sindaco di Moriago della Battaglia Pergentino Breda (non tutti i “piccoli” sindaci sono mediocri…) contro una grande ditta di produzione vitivinicola che aveva “invaso” i palù di quel comune con un progetto vitivinicolo del vino “prosecco” in un’area appunto, tutelata, dove non si doveva piantare viti: grandi interessi economici contro il piglio da “non soccombente” di un sindaco di un piccolo comune. Azione mediatica di grande forza della ditta vitivinicola contro il sindaco (striscioni e manifesti, con messaggi del tipo: “si ferma lo sviluppo e il benessere del territorio!”) e con il tentativo di coinvolgere gerarchie politiche ed ecclesiastiche; e dall’altra la resistenza del sindaco che alla fine riesce a vincere la sua battaglia: l’avanzata dei vitigni ad alto profitto economico in zone non consone, i palù di Moriago, è stata fermata.
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(…) “Agosto 2004 – E mentre i caniba pensano sempre a nuove strade, ecco il colpo di scena!   I palù che non esistevano e non dovevano esistere, ora ci sono, ben visibili e tra poco ben travolti dallo sbrego: i palù e le sère diventano, nell’agosto 2004, territori SIC, Siti di Interesse Comunitario, con il nome di ‘ambito fluviale del Livenza e corso inferiore del Monticano’ istituiti dalla stessa autorità (la Regione Veneto) che li devasta. (…) Il cannibalismo del territorio, una volta compiuto nei suoi più profondi e intimi processi, vuole una natura tutta natura, senza la sua gente, senza corpi sensitivi, senza amori e rabbie per la terra (…) Il cannibalismo del territorio, la nuova natura, vuole un ecosistema muto fatto di elenchi di flora e liste di fauna, senza dèi e fantasmi (…). Nel nuovo millennio, sère e palù tornano ad essere visibili, squarciati dall’autostrada e senza più tabù: ridotti a naturalità, biotopo, territorio, spazio, sito di interesse comunitario… Ad autostrada ottenuta, de-tabuizzati, de-sessualizzati, svuotati dei corpi contadini, svuotati dell’amore contadino, i palù verranno presentati dalle amministrazioni locali che ci hanno voluto l’autostrada come esempio di territorio di pregio. I palù con la loro autostrada.” (…) (Nadia Breda, dal libro)
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   La percezione di un territorio cambia da persona  a persona. Quel tratto di 4 chilometri dei palù per tanti, la maggior parte, è un ostacolo da superare, una “necessità di attraversamento”, di andar via veloci in un altro luogo (l’est… territorio ancora magico e sconosciuto, ripreso dall’autrice parlando del nonno…. “faranno una strada per l’est…”). Pertanto chi “deve solo passare”, andar lontano e velocemente in un altro luogo, lo “odia” quel territorio: è solo un inghippo, un ostacolo da superare; tempo che si perde. A volte qualcuno cerca di apprezzarlo (quel luogo da attraversare), di inchinarsi ad esso, conoscerlo; di “darsi tempo” nel suo viaggio; magari sceglie mezzi di trasporto più lenti ma che permettono di guardarsi attorno. Improbabile e impossibile per chi si sposta quotidianamente per lavoro. Ma tanti altri, per “non lavoro”, potrebbero andar più piano e guardare….
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LA PROPOSTA GEOGRAFICA DI DISEGNARE “AREE METROPOLITANE” IN OGNI DOVE
   Amore della continuità con il proprio passato, i propri avi, di trasmissione di quella continuità ai figli ….ed è forse questo il punto…. Per poter non sopravvivere ma “vivere”, dinamicamente, le aree di grande pregio naturalistico, ma anche storico (come alcuni significativi centri storici di paesi e città…. come la “Venezia-Museo” di adesso…) devono esprimere “autorevolezza” propria e “proposta di vita” autoctona, esportabile ad altri. Uscire così dalla situazione debole che lo sviluppo confuso e caotico del Nordest (ma anche altrove…) le ha relegate.
   Perché questo sviluppo fatto di “imprese, creatività e dedizione al lavoro”, che ci ha dato degli indubbi vantaggi e benessere, ha però pure dato spazio a speculatori che si sono arricchiti a danno di tutti (e dell’ambiente); a un mondo (politico, economico) che la terra la ha vista come solo elemento di speculazione fondiaria, di arricchimento. Nel “mitico Nordest” riconoscere questa “valenza ambientale” in via di inesorabile dissoluzione, fatta di acque sotterranee che appaiono, di mezza montagna ora abbandonata, di Polesine visto ai soli usi energetici (nucleare, carbone…), di lagune inquinate… non può essere guardare ad esse, a queste aree, slegate dal territorio che le circondano, complessivo, nel quale esse esistono.
   E’ emblematico che si preveda in Italia di organizzare e qualificare i territori in sole 9 “aree metropolitane” (nel Veneto l’area tra Venezia, Padova e Treviso). E il resto? … come viene viene…. E allora può accadere che i palù tra Sacile e Conegliano si devono “prendere carico” che un’autostrada passi sopra di loro, li annulli…. (una servitù di passaggio che cambia la natura del luogo). Se l’area pedemontana veneto-friulana avesse individuato in sè un’unica “città metropolitana” (tra Conegliano, Vittorio Veneto, Sacile…) più difficile sarebbe stato per le autorità forti e autorevoli di questa metropoli sacrificare il pregio ambientale di un territorio “dentro di sè”, della città, diverso dal resto ma “proprio”, fondamentale; un luogo (i palù) che esprime qualità e “condiziona il resto circostante” con la sua valenza ambientale…. (e invece il piccolo comune chiede in cambio un velodromo… peraltro mai realizzato…).
   Ecco è tutto. Vi invitiamo a leggere i libro (i modi per procurarselo sono indicati nel riquadro nella prima pagina dell’articolo del blog, che illustra la stessa copertina del libro).
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 Dal sito http://geograficamente.wordpress.com/